Il Borgo di Venosa
Il castello di Venosa saluta i viaggiatori che arrivano da lontano e dal suo altopiano si affaccia sulla distesa brulla e immensa dei campi che ancora portano il segno del grano falciato, intervallati dalla terra rossa e scevra. Accanto al rustico maniero s’intravede il campanile della chiesa del purgatorio, che svetta con aria austera e un po’ gotica.
Addentrandosi per le stradine del centro storico si scopre un borgo medievale che segue il percorso guidato dalle citazioni di Orazio e mostra di sé la sua anima nuda, fatta di case realizzate con calce e mattonelle informi e i resti di un passato che sa di comunità semplice e genuina. Per percorrere la strada principale bisogna lasciarsi andare al piacere della scoperta, perché su di essa si affacciano piccoli vicoletti ed ognuno di questi è una piccola meraviglia sempre diversa: uno si sporge sul verde Parco del Reale, un altro poco più avanti regala scorci di vita quotidiana con le signore che chiacchierano da balcone a balcone ed un altro ancora mostra la fontana del Messer Oto. Venosa non finisce mai di stupire con i suoi negozietti che sembrano affacciarsi dagli anni Cinquanta del secolo scorso e le botteghe di ceramiche artistiche dove maestri ceramisti, sempre sorridenti, realizzano maioliche variopinte, porcellane dal gusto classico e pezzi moderni, delicati ed originali.
Mentre si va alla ricerca della Cattedrale e della Casa di Orazio ci s’imbatte in un delizioso banchetto dove un ex archeologo vende profumi della sua terra. Mentre si annusa l’origano di bosco e si osservano i peperoni essiccati al sole, regala storie di questo borgo, degli Orsini del Balzo e della chiesa dell’Incompiuta, ma anche del parco archeologico che sorprende fuori dal centro urbano, quando si sta per andare via, pensando che di Venosa si abbia visto tutto e invece ci si sbaglia, ancora una volta.
Venosa sorge su un altopiano che si affaccia sui valloni “del Ruscello” e “del Reale” che hanno delimitato l’espansione del borgo e la sua struttura.
Probabilmente la nascita di questo borgo è da attribuire al popolo dei Pelasgi, che rappresentava la civiltà Micenea.
Nel 291 a.C. giungono sull’altopiano ventimila coloni romani guidati dal console L. Postumio Megello ed istituirono una colonia romana che prese il nome di Venusia, probabilmente derivante da Venus cioè Venere, la dea latina dell’amore. Recenti studi archeologici hanno contribuito a mettere in evidenza l’antico assetto della colonia, delimitata da un muro di cinta e dal Castellum Acquae, che sorgeva sul punto in cui s’incontravano i due valloni e rappresentava per questo un neo nella struttura difensiva.
Nell’89 a.C. Venosa divenne Municipium e il suo popolo ha potuto acquistare il diritto di cittadinanza romana, con tutti i privilegi annessi.
L’inizio delle incursioni e dei saccheggi ad opera dei Barbari e dei Saraceni segna l’avvio di un periodo buio per il borgo lucano che può rivedere la luce solo nel 867, quando Ludovico II scaccia gli invasori e riavvia un lento rinnovamento.
L’arrivo dei Normanni nel Sud d’Italia s’intreccia anche con la storia di Venosa; il borgo viene conquistato dai fratelli d’Altavilla nel 1041 e solo un anno dopo è stato assegnato proprio ad uno di questi ultimi: Dragone.
Il nuovo signore, in accordo con il papato e con il clero locale, avvia una serie di rinnovamenti che interessarono l’edilizia religiosa. Per prima cosa trasforma la cattedrale, conosciuta anche come Chiesa della SS. Trinità, in un’abazia e sposta la prima presso la Chiesa di San Felice.
In questo periodo nulla racconta le vicende di Venosa meglio della chiesa della SS. Trinità. Il convento benedettino incontra fin da subito il favore dei normanni e per questo riesce a godere di una floridezza economica che gli permette di intraprendere la costruzione di una chiesa. I lavori dell’edificio però, pochi anni dopo, s’interrompono bruscamente, a causa anche di un periodo di decadenza del monastero che culmina quando l’abazia passa nelle mani dell’Ordine Gerosolimitano di San Giovanni.
L’arrivo degli Svevi, la successiva dominazione Angioina e l’avvio del periodo feudale non portano particolari sconvolgimenti nella cittadina.
Nel 1456 un terremoto mise in ginocchio Venosa che è stata costretta a rinnovare l’assetto urbano. Questo è stato possibile anche grazie ad un periodo di floridezza economica che coincise con l’arrivo degli Aragonesi. Sotto questo nuova dominazione il borgo incominciò a rivedere l’assetto difensivo e nell’ambito di questa riorganizzazione Pirro Orsini del Balzo chiese al vescovo la possibilità di costruire nello stesso sito dove sorgeva la chiesa di San Felice, andata distrutta a causa del sisma. Il punto in questione coincideva con l’incontro tra i due valloni e non poteva rimanere scoperto, per questo Pirro Orsini del Balzo decise di costruire un castello e nel punto opposto della città il principe fece edificare la nuova cattedrale, dedicata a Sant’Andrea Apostolo.
In questo periodo dalle testimonianza del cappellano si è scoperto che a Venosa erano presenti ben trentacinque chiese, di queste dieci sono state demolite in vista del riassetto difensivo.
Gli anni seguenti rappresentano per Venosa un periodo di crescita continua, sia dal punto di vista economico che da quello dell’assetto urbanistico.
Oggi è una cittadina ridente e solare come la sua gente e senza dubbio si può annoverare tra le più belle località della Lucania.
Castello Aragonese
Il Castello di Venosa sorge imponente e maestoso all’ingresso della città. Ha l’aspetto regale e composto di chi è abituato a dover essere autorevole e signorile.
Il punto scelto per la costruzione di questo castello aveva ospitato già diverse costruzioni: in epoca romana qui si trovava il Castellum Acquae, chiamato così perché proprio in questo punto confluivano le acque dell’acquedotto. Successivamente nello stesso luogo venne costruita la chiesa cattedrale di San Felice che è stata danneggiata dal terremoto del 1456 ed in seguito è stata distrutta per far posto all’attuale castello.
Il punto in cui sorge questo castello è lo stesso in cui convergono i Valloni che circondano l’altopiano di Venosa e per lungo tempo è stato un punto debole nel sistema difensivo della città. Per questo motivo il principe aragonese Pirro Orsini del Balzo chiese il permesso al vescovo per costruire il castello in cambio della promessa di edificare una nuova cattedrale in un altro luogo.
Nel 1546, nel pieno del Rinascimento, vennero meno le esigenze difensive ed il signore di Venosa, tale Luigi Gesualdo, trasformò la fortezza in un palazzo gentilizio.
Il castello è sottoposto ad interventi di restauro continuo, alcuni di questi hanno portato alla luce i resti di una strada romana che testimoniano la presenza dell’insediamento fino a questa zona della città.
Oggi, entrando nel castello, potrete far un giro lungo le sue mura merlate, ammirare il cortile e scendere giù nel buio pesto dei sotterranei, ma soprattutto potrete visitare il Museo Archeologico Nazionale, la Biblioteca e l’Archivio storico comunale.
Cattedrale di Sant’Andrea Apostolo
L’attuale cattedrale di Venosa è la terza che questo borgo ha avuto. Procedendo in ordine di tempo, in principio c’era la chiesa-cattedrale della SS. Trinità che durante il periodo normanno venne trasformata in abazia. Successivamente divenne cattedrale la chiesa di San Felice che venne danneggiata dal terremoto del 1456 ed in seguito è stata demolita per far posto al castello aragonese. Il principe promise al vescovo di costruire una nuova Cattedrale di Sant’Andrea Apostolo nel punto opposto alla sua fortezza e mantenne la promessa.
La cattedrale è stata edificata in corrispondenza della chiesa parrocchiale di San Basilio, in una piazza su cui si affacciavano botteghe d’artigiani e officine di fabbri, demolite per far posto all’edificio sacro. Questi laboratori non furono i soli a pagare le spese di questa edificazione, infatti come materiale di costruzione si attinse ai resti dell’anfiteatro romano e questo è il motivo per cui le mura sono ricche d’incisioni latine e di lapide funerarie.
Il prospetto esterno della chiesa è semplice e lineare e non si pregia di particolari decori artistici, ma è accompagnata da un campanile alto quarantadue metri.
L’imponenza esterna si rispecchia nell’ampiezza degli spazi interni, favorita anche dalle mura bianche che insieme ai dettagli in legno massello creano un’armoniosa alternanza di colori.
Lungo il perimetro della chiesa sono presenti altari, adornati da decori e tele, e resti di affreschi che emergono dalle mura tinteggiate.
Gli archi a sesto acuto dividono l’interno dell’edificio in tre navate e sulle architravi sono presenti gli stemmi della famiglia Orsini del Balzo. Due scalinate laterali, con balaustra in marmi policromi, conducono alla cripta in cui ha trovato riposo Maria Donata Orsini, moglie di Pirro del Balzo. Sull’altare maggiore si affaccia un pulpito in marmo semplice e alla sua destra si trova una delle cappelle della chiesa. Tra queste la più importante è quella dedicata al SS. Sacramento che ha un ingresso con un arco risalente al 1520 e affreschi a tema biblico che raffigurano Giuditta e Oloferne e Davide e Golia.
Chiesa Incompiuta di Maria Santissima Trinità
Pirro Orsini del Balzo, principe di Venosa, edificò in città il castello e la cattedrale attingendo al materiale che si poteva reperire dagli antichi resti romani. La figlia, affascinata dalle costruzioni imponenti e maestose, iniziò a chiedere con insistenza al padre una chiesa per sé.
Così nel 1110 iniziarono i lavori per la costruzione di una nuovo luogo di culto che doveva essere realizzato con un impasto di calce e chiaro d’uovo e mattonelle romane, tuttavia le opere precedenti avevano prosciugato le risorse e ben presto finirono sia la pietra che la calce e la chiesa non poté mai essere completata.
L’Incompiuta sorge fuori dall’abitato cittadino, vicino alla chiesa di San Rocco e ai resti dell’insediamento di epoca romana. Nonostante sia priva di tetto e di molti elementi importanti, percorrere le mura di questo edificio regala attimi di pura suggestione.
Il tempo, il vento e le piogge sono ormai padroni di questo luogo, che resterà per sempre confinato nell’immaginario di quello che sarebbe potuto essere e mai sarà.
Casa di Orazio
Piazza Orazio Flacco, poeta latino. Questo è l’indirizzo per giungere a quella che comunemente è conosciuta come la Casa Natale di Orazio, poeta latino, nato intorno al 65 a. C.
La casa ha le sembianze di una casa patrizia, che ha subito vari rimaneggiamenti nel tempo ma presenta ancora tracce di epoca romana sui muri esterni.
Nonostante le usanze comuni, studi recenti hanno posto in evidenza che probabilmente questo luogo era in realtà un edificio termale pubblico. L’impianto interno è caratterizzato da due sale rotonde e contigue, di cui una con pavimento suspuspensurae, che probabilmente coincideva con la sauna. Le terme certamente dovevano essere composte da altri vani, che sicuramente sono stati inglobati nel tempo dalle costruzioni circostanti.
Il vicoletto davanti alla casa è caratterizzato dalla presenza di quattro lastre di epoca romana, che è in realtà una botola e guardando meglio si può vedere un mosaico pavimentato con raffigurazioni di animali marini: con molta probabilità questo era il frigidarium.
Nell’ambiente che circonda questo edificio sono stati ritrovati pozzi e canalette, risalenti ad un epoca tardo romana ed altomedievale e da fonti storiche risulta che questa zona sarebbe stata ricca di botteghe artigianali.
Nonostante probabilmente quest’edificio non abbia in realtà dato i natali al poeta del Carpe Diem, chi si incammina sulle tracce di Orazio non resterà sicuramente deluso da Venosa. Il percorso cittadino è contrassegnato dalle sue massime e passando da Piazza Orazio si può sempre fare un saluto alla sua statua che dall’alto incoraggia a vivere appieno la propria esistenza.
Fontana di Messer Oto
Dall’arrivo degli aragonesi in Italia all’avvento del periodo feudale, Venosa non incontra particolari vicende né cambiamenti interessanti.
Durante il periodo Angioino, Roberto d’Angiò emanò una concessione per la costruzione di fontane all’interno del centro abitato e a Venosa si decise di costruire una fontana in pietra sormontata da un leone romano. La fontana è conosciuta da tutti con il nome di ‘ La fontana di Messer Oto.’ Per secoli ha rappresentato il fulcro della vita cittadina perché era il luogo dove tutti si doveva recare per poter attingere l’acqua per le faccende quotidiane, ma veniva anche usata come lavatoio pubblico.
Parco Archeologico di Venosa
Il Parco Archeologico segna il punto di chiusura delle bellezze storico-artistiche della città lucana. La strada che porta verso Melfi, divide in due il parco e in qualche modo traccia una linea di confine tra due epoche diverse, quella dell’Età Repubblicana e quella dell’Età Imperiale.
Sul lato destro, dove si ergono la chiesa Incompiuta e la chiesa di San Rocco, si trovano i resti delle terme, del Trepidarium e del Frigidarium, realizzati durante gli anni dell’Impero, in età Traiano- Adrianca. In questa zona sono state ritrovate anche testimonianze di case coloniche, risalenti al 43 a.C., che furono edificate sui resti di fornaci di Età Repubblicana. Queste case hanno subito modifiche e rimaneggiamenti già nel primo secolo dopo Cristo.
L’altra metà del parco custodisce i resti dell’edificio più conosciuto e importante di Venusia: l’anfiteatro.
L’anfiteatro romano è stato edificato in due epoche successive, la prima costruzione si fa risalire al periodo imperiale ed in particolare all’età Giulio-Claudia, mentre la muratura mista appartiene ad un epoca successiva, che coincide con l’eta Traiano-Adrianca. L’anfiteatro seguiva la tradizionale forma ellittica e sulla base del calcolo delle misure e di altri studi si è ipotizzato che potesse contenere circa dieci mila spettatori.
L’anfiteatro romano ha contribuito letteralmente alla costruzione del centro abitato di Venosa, infatti con la decadenza dell’Impero Romano quest’opera è stata letteralmente smontata e camminando per le strade della città si trovano ancora i suoi pezzi, alcuni incastonati nei muri delle costruzioni, altri utilizzati come decori.
La Tradizione della ceramica
La lavorazione della ceramica a Venosa vanta origini antichissime che sono testimoniate dai resti di fornaci presenti nel parco archeologico e datate intorno al VII secolo a.C. Ma la lavorazione della terracotta è ancora più antica e si fa risalire tra il IX e il VIII secolo a. C.
L’antica Via delle Fornaci è il segno più evidente di questa gloriosa tradizione. Oggi però di questo laboratorio a cielo aperto resta in piedi solo una fornace e poco più avanti si trovano le grotte utilizzate per le diverse fasi di lavorazione.
Un documento risalente al ‘Settecento testimonia che tra i diversi artigiani i vasari erano in numero maggiore e le tre famiglie principali garantivano la produzione di 150 orciuoli, 700 lucerne e 150 piatti per ogni vasaro.
Oggi la tradizione della lavorazione della ceramica a Venosa è ancora viva: è uno dei pochi paesi lucani a vantare la presenza di diverse botteghe artigianali che si affacciano sulla strada principale e rallegrano con le loro maioliche colorate, riuscendo ad unire la bellezza delle ceramiche classiche con l’innovazione e la modernità contemporanea.
Orazio e il potere delle origini.
A Venosa, l’8 dicembre del 65 a. C. rivolgeva al mondo i suoi primi vagiti Quinto Orazio Flacco. Da giovane è cresciuto confortato dall’infinito amore di suo padre, uno schiavo liberto che fu anche suo precettore, motivo per il quale il poeta gli è stato sempre grato.
In gioventù Orazio ha manifestato l’intenzione di volersi trasferire a Roma e il padre si è rimboccato le maniche per poter accontentare i desideri del figlio.
Nella capitale Orazio ha studiato presso le migliori scuole di grammatica e retorica e a diciotto anni si è trasferito ad Atene, dove ha assorbito la raffinata cultura ellenica e si è accompagnato ad illustri accademici, peripatetici ed epicurei. In Grecia Orazio ha abbracciato anche l’ideologia repubblicana dei patrizi romani e nel 42 a.C. ha partecipato alla battaglia di Filippi. Un anno dopo, per concessione di Ottaviano, è potuto rientrare a Roma ma l’imperatore gli confiscò comunque tutti i beni che aveva a Venosa.
Povero e senza mezzi, Orazio si è adattato a fare lo scrivano della questura e nello stesso periodo i suoi scritti iniziarono ad incontrare il favore del pubblico e di illustri lettori come Virgilio e Vario. Questi due intellettuali gli sono stati amici per la vita e lo presentarono a Mecenate che lo introdusse in una cerchia ristretta vicina ad Augusto. L’imperatore volle Orazio come suo segretario, ma nonostante il poeta abbia sempre condiviso la sua azione politica e i suoi scritti rifiutò comunque l’incarico.
A partire dal 30 a.C. ha iniziato a scrivere i quattro libri delle Odi. Nel 20 a. C. il poeta ha consegnato al pubblico le sue Epistole, tra le quali si annovera l’Ars Poetica. Il 17 a. C. è l’anno in cui Orazio scrisse il Carmen Saeculare, in onore di Apollo e Diana.
Quinto Orazio Flacco morì il 27 novembre del 8 a. C, poco dopo l’amico Mecenate. Il poeta lasciò tutti i suoi averi all’imperatore Augusto che lo fece seppellire sull’Esquilino, accanto a Mecenate.
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Le Ajette
A Venosa le Ajette sono una vera e propria leccornia, tipiche della cucina povera e contadina. Le Ajette sono fichi che vengono schiacciati e posti ad essiccare al sole, una volta pronte vengono infilzate con un bastoncino di canna dritto, ma talvolta si opta anche per una struttura di piramidale.
Quando si ha voglia di mangiarli, i fichi vengono sfilati, farciti con la mandorla, ricoperti di cioccolato e immersi nell’anice. Una prelibatezza unica nel suo genere.
Il nocino di San Giovanni
La notte più corta dell’anno, tra il 21 e il 22 giugno, s’intreccia con il culto di San Giovanni e rimane in bilico tra il sacro ed il profano. Si racconta che proprio in questa notte le streghe fossero solite fare i loro Sabba, danzando attorno ad un albero di noce. Il noce è molto legato ai racconti esoterici ed è protagonista anche di un’antica tradizione di Venosa.
Dai racconti popolari sappiamo che la notte del solstizio d’estate la donna più abile doveva raccogliere le noci con i piedi nudi e doveva iniziare la preparazione del nocino. Le noci venivano poste in infusione nell’alcool, con chiodi di garofano, cannella ed altre spezie ed erbe aromatiche, per quaranta giorni, dopo di che veniva filtrato e imbottigliato.
Oggi le noci non si raccolgono più secondo questo antico rito, ma il giorno di San Giovanni è tradizione iniziare la preparazione di questo liquore.
La ricetta è molto antica e spesso si tramanda da famiglia a famiglia con piccole varianti, il risultato è un nocino ‘da paura’, ottimo come digestivo e come tonico per i malanni del fegato.
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