Il Borgo di Melfi
Melfi è circondata dallo scenario unico della terra nera del Vulture e basta avvicinarsi all’ingresso della città per capire che questo luogo può solo regalare suggestive emozioni.
Melfi è una città divisa in due parti, la prima che s’incontra è quella più moderna, adagiata placidamente ai piedi del borgo antico che vive su un altura, protetto dalla cinta muraria e dal castello normanno.
Il centro storico è il regno di Federico II di Svevia, da un’altura domina la vallata e la cittadina sottostante, con un panorama che appaga la vista.
Il castello, imponente e maestoso come pochi, si affaccia sulle casette medievali e sulla cattedrale con il suo campanile, ma basta spostarsi sull’altro lato per ammirare uno scenario totalmente diverso, caratterizzato da valloni e alture semi desertiche, punteggiate solo da radi arbusti verdi.
Melfi è un intarsio di stradine medievali e piccoli vicoli che declinano verso la valle ma di tanto in tanto, negli angoli più inaspettato, si viene sorpresi da alcune piccole statue che raffigurano bambini intenti a giocare ai giochi di una volta.
Le strade, le mura, le piccole case di Melfi, sono tutte un’esortazione a camminare, girare, scoprire, e capita così di trovarsi davanti a dimore modeste e semplici dove piccole targhe ricordano il loro passato storico, come quella che indica la dimora di Pier delle Vigne o poco più avanti, un’abitazione dal tenue color azzurro, dove una lastra in marmo racconta che lì, proprio in quel luogo, è nato e ha vissuto lo statista Francesco Saverio Nitti.
Il Melfia scorre ai piedi del borgo lucano, a questo piccolo fiume Melfi deve il suo nome.
L’origine della città è incerta e poggia su diverse ipotesi. Alcune testimonianze storiche hanno evidenziato la presenza di insediamenti umani risalenti all’Età del Ferro e con il passare del tempo lo stesso luogo è diventato centro di ritrovo per le civiltà lucane dei Dauni e dei Sanniti.
L’ipotesi più accreditata riguardo alla fondazione di Melfi è quella dello storico locale Apulo, che afferma che intorno al 1018 Basilio Bojohannes, capitano bizantino dell’Italia meridionale, ordinò una riorganizzazione dell’assetto difensivo della Puglia e la costruzione di nuove città- roccaforti, in questo contesto si fa risalire anche la nascita di Melfi.
L’inizio di un periodo di crescita per Melfi risale all’arrivo dei Normanni nel meridione che nel 1041 conquistarono il borgo e un anno dopo lo innalzarono al rango di città-comune. Dopo la costruzione di una fortezza, Melfi passò ad essere capitale della contea, che venne detenuta da diversi potentati, tra qui l’imperatore Enrico III e papa Leone IX.
Il normanno Roberto il Guiscardo ha il merito di aver rinforzato le mura di difesa e di aver edificato la prima cattedrale.
Nel 1059 papa Nicolò II convocò il Primo Concilio di Melfi, con lo scopo di ridare autonomia alla chiesa e sottrarla al potere tedesco. Melfi in questo contesto diventa il retroterra delle conquiste normanne, un dato di fatto che si rafforza con la nomina di Roberto il Guiscardo a duca di Puglia e Calabria e con la convocazione di altri quattro concili. Proprio da Melfi nel concilio del 1089, il terzo in ordine temporale, viene deciso l’obbligo di celibato per il clero, viene istituita la “Lega Santa” e s’inizia la predicazione per la prima crociata.
Nel 1130 a Melfi viene convocato un parlamento con il quale si conferisce a Ruggero II il titolo di Re di Sicilia e duca di Puglia e Calabria, questo è l’avvio di una politica assolutistica che culmina con lo spostamento del centro di potere a Palermo e con l’inizio di una serie di rivolte popolari nella città lucana.
Un nuovo splendore abbaglia Melfi con l’arrivo degli Svevi e soprattutto di Federico II che sceglie proprio questo borgo come sede della sua dimora estiva. Nel 1221 il papa Onororio III convoca a Melfi un concistoro a cui partecipano le più alte cariche del clero e della società civile, questo rappresenta un inevitabile incontro tra il papa e l’imperatore. Il concistoro viene vissuto in un clima di tensione per via dell’imminente partenza dell’imperatore per la seconda crociata. Federico II posto alla guida dell’esercito cattolico non conduce l’impresa nel modo in cui il papato avrebbe desiderato ma riesce a trovare un punto d’incontro tra il mondo cristiano e il sultano e questo porterà l’imperatore dritto verso la scomunica.
Federico II, ritornato in Italia, aprì a Melfi una scuola di logica che aveva il compito di trovare persone adatte a redigere le sue ‘Constitutiones Melphitanae’, che vennero emanate nel 1231. Le Costituzioni Melfitane sono tra i più alti esempi di legislazione perché l’imperatore Svevo è riuscito a racchiudere in un unico codice l’intera materia politica del suo regno, trovando il giusto punto di equilibrio tra il diritto romano e quello tedesco. Sebbene le nuove leggi siano state accolte con favore dal popolo, il papato ha storto il naso un’altra volta, intravedendo nelle costituzioni un’usurpazione del suo potere. Federico II infatti aveva legiferato anche in materie che all’epoca rientravano nel diritto canonico ed erano quindi di esclusiva competenza della chiesa, questo fu il motivo della sua seconda scomunica.
Nonostante il malcontento papale, all’imperatore Svevo si deve riconoscere il merito di aver creato un impero unitario sulla base di principi illuminati. Federico II scelse nuovamente Melfi per collocare alcune importanti istituzioni come la Camera del Regno, la Camera dell’Archivio e la Camera dei Conti. Inoltre grazie alla seconda crociata, guidata appunto dall’imperatore, il sultano Al Kamil donò al giardino zoologico di Melfi la prima giraffa d’Europa.
La svolta angioina nel meridione portò a Melfi una fase di politica repressiva, guidata proprio da Carlo d’Angiò. Questo è l’inizio del declino della città, in cui l’unica parentesi è rappresentata dall’acquisizione del potere feudale da parte della famiglia Caracciolo che apre le soglie della corte di Melfi ad importanti artisti e letterati ed avvia un’opera di urbanizzazione che porta il borgo ad essere conosciuto come ‘la seconda Napoli’.
Nel 1528 Melfi venne trascinata all’interno della guerra tra spagnoli e francesi e proprio questi ultimi finirono per saccheggiare la città.
Il feudo di Melfi venne tenuto dalla famiglia Doria fino al 1806 ma nel XVIII secolo la situazione nel borgo era al quanto precaria. A contribuire alla sua decadenza giunsero alcune epidemie di pesti e i terremoti, di cui tre (1694, 1851 e 1930) portarono al crollo di importanti edifici, distruggendo pregiatissime testimonianze storiche.
Melfi da sempre ha rappresentato un punto importante della Lucania, è stata ‘capoluogo’ del Melfese, uno dei quattro circondari della regione ma è fin dalla svolta unitaria che la città ha iniziato a rivendicare il suo diritto a diventare provincia.
Castello Normanno- Svevo
Oggi passeggiando per le stanze del castello di Melfi potete ammirare gli importanti reperti archeologici custoditi dal Museo Archeologico Nazionale del Melfese, e soprattutto potrete fantasticare sulle tante vicende storiche che hanno avuto come protagonista questa fortezza ma per raccontarle tutte bisogna procedere per ordine.
Nel 999 i Normanni giungono nel meridione e nel 1041 anche Melfi finisce sotto il loro dominio, quest’anno rappresenta un punto di svolta nella storia del borgo. Con i Normanni la città diventa contea ed in questo contesto viene costruita una fortezza e una cinta muraria. Il primo nucleo del castello è a pianta quadrata, con torrioni angolari.
Con l’inizio del dominio svevo e l’ascesa all’impero di Federico II, Melfi diventa scenario privilegiato d’importanti vicende storiche. Tra le mura del suo castello vengono convocati quattro concili, viene avviata la prima crociata e convocato un concistoro. Per l’imperatore Melfi rappresenta il luogo ideale dove trascorrere le vacanze estive ed organizzare battute di caccia, Federico II amava far volare il suo falco dalle finestre del secondo piano del castello. Grazie all’istituzione di una scuola di logica l’imperatore riuscì a trovare uomini adatti a redigere il primo codice di diritto unitario del Medioevo e dal castello di Melfi nel 1231 l’imperatore promulgò le ‘Constitutiones Melphitanae’.
Federico II si occupò anche di ristrutturare e ampliare il castello, come fecero anche gli angioini ed in seguito la famiglia Caracciolo che tenne il feudo di Melfi a partire dal 1416.
Il castello di Melfi è a pianta quadrata, circondato da ben dieci torri. In origine vi erano quattro ingressi, che seguivano i punti cardinali, oggi due di questi ingressi sono stati murati e restano aperti l’accesso da nord che dà sulle campagne e l’accesso che si affaccia sul borgo, quello che viene comunemente usato. Da quell’ingresso in principio si accedeva attraversando un ponte levatoio che si stendeva sul fossato, solo in seguito è stato costruito il ponte in muratura che si vede oggi.
Da qualche anno questa residenza è diventata sede del Museo Archeologico Nazionale del Melfese e custodisce importanti reperti archeologici ritrovati nella zona del Vulture, oltre ad una sala che ospita alcune tele con scene di caccia che sono appartenute alla famiglia Doria, che ha tenuto il feudo di Melfi per quattro secoli.
Tra i ritrovamenti più importanti che sono conservati nel museo si trova il famoso sarcofago di Rapallo, dal nome della città in cui è stato ritrovato. Si tratta di una maestosa tomba in marmo bianco, interamente scolpita; sul coperchio è stata rappresentata una donna distesa.
Cattedrale di Santa Maria Assunta
Il campanile permette di riconoscere anche da lontano la Cattedrale di Melfi. Precedentemente nello stesso punto esisteva un’altra cattedrale, costruita da Roberto il Guiscardo e poi andata interamente distrutta.
La cattedrale attuale risale al 1153 ed è stata voluta da Ruggero II, ma delle sue fattezze originali oggi resta ben poco. Melfi infatti è un borgo che ha subito diversi terremoti di gravi intensità, alcuni di questi hanno compromesso la struttura della chiesa e per questo motivo è stato necessario intervenire più volte. Le opere di modifica e ristrutturazione hanno portato a sostituire lo stile romanico che si distingueva nella cattedrale, con uno stile tardo barocco, ma son ben riconoscibili anche altri tipi di stile risalenti ad epoche successive.
Oggi la cattedrale si presenta con una facciata bianca e dai tratti austeri, divisa in due da un cornicione. L’ingresso è contrassegnato da un portale sormontato da due angeli che sorreggono un ovale e da un portale di particolare prestigio, in cui si possono ammirare sei pannelli in bronzo che raffigurano l’annunciazione, l’assunzione di Maria, la Pentecoste, i quattro concili papali che si sono tenuti a Melfi, il martirio di S. Alessandro e la visita pastorale del vescovo.
Varcando la soglia ci si lascia alle spalle il bianco candore della facciata, per entrare in luogo ricco di colori e di decori. L’interno è a croce latina, con tre navate e l’ingresso è contrassegnato da tre tele di autore anonimo, tra le quali spicca per imponenza e bellezza un dipinto che raffigura l’ultima cena.
Le pareti della chiesa sono arricchite da numerose cappelle, con tele di grande valore e altari in stile barocco: tra questi ultimi il più importante è l’altare di San Alessandro, santo patrono di Melfi. Nella cappella a lui dedicata si trova una teca che custodisce le reliquie del santo.
L’altare maggiore è realizzato con un intarsio di marmi che creano forme rotondeggianti, tipiche dello stile barocco. Dietro l’altare un’urna custodisce il corpo di San Teodoro.
Alle spalle dell’altare maggiore s’intravede un coro ligneo risalente al ‘Cinquecento, non è l’unico elemento di valore conservato in quell’angolo della chiesa. Tra il presbiterio e l’abside si trova un organo a canne del ‘Settecento e un trono, fatto realizzare dal vescovo Spinelli. Il prelato di origine napoletana, ha inciso molto sulla costruzione della chiesa e proprio il suo stemma si trova sul soffitto della navata centrale, caratterizzato da un bellissimo cielo appeso a cassettoni, realizzato in legno intagliato e decorato da motivi color oro.
Palazzo Vescovile e Museo Diocesano di Melfi
Il palazzo vescovile di Melfi è adiacente alla chiesa cattedrale e segue la sua linea semplice e sobria, contrassegnata da una facciata chiara in cui spicca un portale centrale. Il prospetto è caratterizzato da linee morbide ed armoniose, che si rispecchiano anche nel balcone centrale.
Dal piano terra si accede ad un chiostro, all’interno del quale si può ammirare una fontana centrale, caratterizzata ancora una volta da forme sinuose e rotondeggianti. Il giardino all’italiana è sicuramente uno dei punti forti del vescovado: il verde brillante dei prati all’inglese si mescola al bianco del vialetto centrale e dei mezzi busti che ne seguono l’andamento.
Una scalinata imponente conduce verso il piano nobile del palazzo, dove si possono ammirare le bellissime sale affrescate. Basta girare per ritrovarsi immersi nello scenario storico della sala del trono, tra i pregiati volumi della biblioteca e nella bellissima cappella Palatina.
Da alcuni anni il vescovado di Melfi è diventato sede del Museo Diocesano, il piano terra della residenza ospita suppellettili ed oggetti in argento e oro che sono stati utilizzati nelle funzioni liturgiche e durante i riti più importanti celebrati dal vescovo. Il piano superiore invece ospita la pinacoteca, all’interno della quale si possono ammirare dipinti e sculture realizzate tra il XV e il XVIII secolo.
Chiesa rupestre di Santa Margherita
In seguito all’ascesa della dominazione bizantina, nel meridione d’Italia si stabilirono anche i monaci Basiliani. Nella zona del Vulture la presenza di questi monaci ha lasciato impronte importanti che si intravedono sia sul piano spirituale che sul piano storico e paesaggistico. Dal punto di vista della religiosità i monaci Basiliani hanno contribuito fortemente alla diffusione del culto di San Michele, ancora molto sentito in quest’area. Dal punto di vista culturale e paesaggistico, i monaci hanno lasciato a questo territorio numerose cripte, tra cui quella più importante è la chiesa rupestre di Santa Margherita.
Questa chiesa rupestre si trova poco dopo il centro abitato di Melfi, lungo la strada che conduce a Rapallo ed in prossimità del cimitero di Ognissanti. La cripta è interamente scavata nella roccia tufacea vulcanica, è a navata unica con campate e volti a botte. L’altare maggiore è stato ricavato da un piccola rientranza più bassa e questo lo rende simile ad una piccola cappella. La chiesa di Santa Margherita è conosciuta per i numerosi affreschi presenti lungo le pareti, tra questi quello che attira di più la curiosità dei visitatori è conosciuto come ‘Il contrasto tra i vivi e i morti’. Questo dipinto rappresenta da un lato tre scheletri con dei vermi posti all’altezza dello stomaco e dall’altro tre figure umane che secondo molti rappresenterebbero l’imperatore Federico II di Svevia, sua moglie Isabella e il figlio Corrado IV. Secondo le ipotesi più accreditate il dipinto vorrebbe simboleggiare quello che ci aspetta una volta varcata la soglia della vita terrena.
Francesco Saverio Nitti
A Melfi, in una casa modesta del borgo antico, è nato Francesco Saverio Nitti, il 19 luglio del 1868.
Francesco Saverio apprese la sua prima istruzione nel borgo lucano, ma nel 1883 si trasferì a Napoli per continuare il liceo e laurearsi in giurisprudenza. Grazie alle conoscenze influenti che riuscì a farsi all’interno dell’università, Francesco Saverio ha potuto avviare una carriera giornalistica, prima presso le stampe locali e successivamente a Il Mattino.
Fin dai suoi primi scritti, Francesco Saverio Nitti dimostrò grande attenzione per il suo Sud e per i problemi che attanagliavano questa terra. Nel 1888 da’ alle stampe il suo primo libro L’emigrazione italiana e i suoi avversari, in cui sostiene la necessità di favorire la migrazione all’estero dei contadini meridionali, schiacciati dai soprusi della classe dirigente.
I saggi e gli scritti pubblicati nell’arco della sua vita furono molteplici e gli garantirono la fama di grande meridionalista. Tra i tanti, il più importante e il più conosciuto è Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97. Nord e Sud. Uno scritto che presenta numerose pecche, ma si caratterizza per le tesi vivaci ed originali, aprendo il dibattito sulla questione meridionali e su aspetti importanti come il traffico di capitali da Nord a Sud, i danni causati dall’alienazione dei beni ecclesiastici e i tassi alti del protezionismo.
Il primo ingresso in parlamento risale al 1906, quando a trentasei anni diventa deputato, schierandosi tra le file di un partito variegato ed eterogeneo di opposizione. Nonostante questo, Nitti non si mostra mai veramente ostile a Giolitti e spesso collaborarono insieme.
Durante questo mandato Nitti viene convocato all’interno della commissione d’inchiesta sulle condizioni dei contadini del Sud. Viene nominato a guida della sottocommissione della Basilicata e Calabria e prese così a cuore il problema che, insieme ai deputati Antonio Cefaly e Giovanni Ranieri, girarono gran parte delle due regioni per intervistare tutti i contadini. Il risultato è stato un’inchiesta in cui si evince che queste terre avevano problemi causati dai terremoti ma anche dall’intensa attività di disboscamento delle dolomiti Calabro-Lucane. Questa è stata la causa dei numerosi crolli e del diffondersi della malaria che ha messo inginocchio la zona. Per far fronte all’emergenza si evidenziava la necessità di piantumazione dell’area interessata, per poter ricostituire la foresta.
Nel 1911 Nitti diventa ministro dell’agricoltura con il governo Giolitti e mette in pratica i provvedimenti che aveva caldeggiato con la sua inchiesta. Nel 1917 viene nominato ministro del tesoro durante il governo Orlando.
Dal 1919 al 1920 è capo del governo, in questi anni provò a risanare la crisi economica italiana varando un piano prestiti e riducendo i quadri dell’esercito. Tuttavia problemi di ordine pubblico e il mancato appoggio delle forze cattoliche e socialiste lo portarono a dimettersi.
Nel 1943 viene catturato dalla Gestapo nazista e deportato in Austria, in questi anni scrive Meditazioni dell’esilio, che pubblicherà nel 1947. Nel 1945 viene liberato dell’esercito francese, ritorna in Italia e insieme a Benedetto Croce, Bonomi e Orlando promuove l’Unione Democratica Italiana.
In questi anni è senatore di diritto. Muore a Roma, il 20 febbraio del 1953.
Pier delle Vigne
Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi
Dante lo immagina proferire queste parole nel versi 35-37, canto tredicesimo dell’inferno. Siamo nel bel mezzo della Divina Commedia, nel girone in cui Dante Alighieri e Virgilio incontrano coloro che hanno usato violenza contro di sé, cioè i suicidi, tra questi il poeta toscano colloca Pier delle Vigne.
Pier delle Vigne è nato nel 1190 a Capua, da una famiglia benestante. Nel 1220 si è avviato alla professione di notaio al servizio dell’imperatore Federico II di Svevia che pochi anni più tardi, nel 1224, lo nomina giudice della Magna Curia imperiale.
Pier delle Vigne apparteneva a quella cerchia ristretta di persone che redigeva documenti per l’imperatore, non sono circolari legate alla burocrazia ma anche lettere che si caratterizzarono per lo stilus supremus.
Nonostante la sua attività lavorativa, Pier delle Vigne fu anche un letterato molto attivo presso la corte dell’imperatore, spendendosi anche a favore dell’Università di Napoli e probabilmente scrivendo di suo pugno la lettera che ne sanciva la fondazione.
Nel 1239 divenne Gran Giudice della Corte imperiale, un ruolo che lo poneva al di sopra di tutti i notai di corte e lo rendeva custode dei sigilli dell’impero. Nell’ambito di questo incarico, fece parte della commissione che ha redatto le Costitutiones Melphitanae (1231), il più grande codice di diritto penale e civile del Medioevo, promulgato proprio dall’imperatore svevo.
Dal 1230 inizia la sua carriera di ambasciatore imperiale, che lo porta a girare per i comuni del nord Italia e d’Europa. In Inghilterra celebra il matrimonio tra Enrico III e Isabella di Castillia e come forma di ringraziamento viene nominato Vassallo.
La disgrazie si abbatte su di lui a Cremona, nel 1249, quando viene accusato di tradimento e arrestato ma probabilmente Pier delle Vigne è stato vittima di una congiura. Nonostante questo è lo stesso imperatore Federico II ad accecarlo in pubblica piazza a Pontremoli. Poco dopo Pier delle Vigne morì, probabilmente si suicida per la vergogna di aver ricevuto simili accuse.
Proprio Dante Alighieri lo salva simbolicamente dall’oltraggio ricevuto. Lo colloca nella selva dei suicidi, lo condanna a non avere più sembianze umane, poiché con il suicidio ha rinunciato al suo corpo, è questa la legge del contrappasso, ma nonostante questo Dante assolve Pier delle Vigne, per non aver mai tradito il suo imperatore.
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Calzoncelli di Melfi
La cucina tipica di Melfi si basa sugli ingredienti facilmente reperibili nella zona, come le castagne, oppure sulla pastorizia, un’ attività che in passato veniva praticata da molti residenti. Ecco perché tra i piatti tipici di questo borgo si possono trovare le lasagne di castagne, oppure il pane del pastore.
La ricetta tipica che vi proponiamo oggi sono dei dolci, in particolare dei biscotti, che vengono tradizionalmente preparati durante il periodo natalizia: stiamo parlando dei ‘Calzoncelli di Melfi’.
Ingredienti per la sfoglia:
- 600 gr di farina;
- 100 gr di zucchero semolato;
- 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva
- 2 uova;
- 200 ml di vino bianco;
- Un pizzico di sale;
Per il ripieno:
- 400 gr di mandorle pelate e già tostate;
- 250 gr di zucchero semolato;
- 200 gr di cioccolato fondente;
- Scorsa di limone.
Preparazione:
Sul piano di lavoro creare con la farina una specie di fontana, lasciando il centro vuoto. Aggiungere nel mezzo le uova leggermente sbattute, un pizzico di sale, lo zucchero e poi pian piano versare l’olio e il vino. Dopo di che bisognerà lavorare l’impasto fin quando non diventa morbido ma non appiccicoso; una volta raggiunto questo risultato prendere la pellicola trasparente ed avvolgere l’impasto per poi lasciarlo riposare per un’ora a temperatura ambiente.
Nel frattempo per la preparazione del ripieno è necessario unire tutti gli ingredienti e frullarli insieme, fino ad ottenere una pasta omogenea che verrà lavorata per ottenere un salsicciotto. Dopo di che si taglieranno dei tocchetti di impasto.
Quando la pasta avrà riposato verrà stesa fino a diventare molto sottile. Posizionare i tocchetti di ripieno sulla sfoglia, tagliarla e ricoprire il ripieno per ottenere una forma simile ad un raviolo.
Scaldare il forno a 180° e cuocere i calzoncelli a più riprese, solitamente di 15- 20 minuti circa, fino a farli diventare dorati.
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